
Mi chiamo Angelo, laureando in relazioni internazionali di 23 anni, e faccio parte del primo gruppo di tre volontari italiani partiti per la Siria con la fondazione SOS Cristiani d’Oriente, filiale italiana dell’organizzazione umanitaria francese Sos Chrétiens d’Orient.
Comincio col rievocare la memoria che domina forse più di tutte sulle altre. Una frase che emerge con decisione nel novero dei tanti ricordi. Una richiesta che in tutta la sua sintetica spontaneità rivela e raccoglie il senso dell’esperienza intera. “Torna, e racconta la verità!”. Quasi fosse una formula dall’eco profetico, disposta ad introdurre le tante conoscenze che capitavano sulla mia strada. Quale stimolo più forte nell’indurmi ad imprimere su carta questi pensieri? Ironia della sorte volle farmi trovare proprio sulla strada di Damasco mentre udii quelle parole per la prima volta, non così lontano dalle piane che testimoniarono la conversione forse più iconica della simbologia biblica, permettendo a quel Saulo di venir folgorato dall’epifania della verità cristiana.
Ma nelle terre del Levante, dove la religiosità si è palesata per millenni come dimensione strettamente intrinseca agli equilibri di potere, l’invito a diffondere la verità non poteva esaurirsi ad un intento apostolico, evangelizzante. Un tale invito veniva invece speso come disperato appello di un popolo che affrontando la tragedia della guerra e sopravvivendo in un modo o nell’altro alle sue drammatiche conseguenze, non è mai riuscito a rassegnarsi all’idea della menzogna.
E di qui l’esortazione che sistematicamente mi veniva posta, lontano da orecchie indiscrete, in via colloquiale e del tutto personale, da persone comuni lungi da essere reputati amplificatori di propaganda, in modo omogeneo, appartenenti a diverse confessioni religiose. Chiunque, da figlio della Siria, unito dalla ferita provocata da quell’offensiva politico-mediatica proveniente dall’estero, che in questi ultimi sei anni ha via via alimentato e sedimentato una narrativa atta a dipingere il conflitto con tinte bianche e nere, secondo un impianto accusatorio risolutamente manicheo.
Che significa dunque raccontare la verità? Che significa stare dalla parte del vero in un panorama, quello occidentale, dove qualsiasi versione degli eventi non aderente alla vulgata dominante è destinata all’ostracismo intellettuale? Che significa farsi carico di una promessa essendo privo di qualsivoglia competenza giornalistica? Ma soprattutto che significa essere volontario ed accettare un onere di questo tipo, che in apparenza sembra oltrepassare il limes entro cui l’impegno umanitario si esaurisce? Significa prima di tutto operare una scelta, controcorrente, autonoma, e politica.
E significa accettare il postulato che una verità unilaterale non esista, ma che esistano verità non raccontate, escluse dalla narrazione mediatica di proposito o per negligenza, e tentare di parlarne con un atteggiamento super partes.
Così il mio impegno da volontario non si è unicamente limitato all’aiuto offerto, certo componente essenziale dell’intera esperienza, ma si è fatto anche strumento esclusivo per accedere ad un punto di vista privilegiato, chiave di lettura efficace per decifrare lo spaccato in cui ero inserito. Come si può del resto pretendere di riportare la verità qui in Occidente senza averne indagato e capito in precedenza i suoi tratti. E quale modo migliore per comprenderla di calarcisi direttamente attraverso una missione di volontariato. Osservare, aiutare, capire!
Oggi, incontrando amici e conoscenti, quando tra lo sbigottimento seguito all’aver appreso della mia esperienza mi viene domandato perché proprio la Siria, mi sorge spontaneo ripetere questo motto. Una sorta di sillogismo con cui ho tentato di scandire la mia esperienza e di cui ho trovato riscontro nella politica oculata dell’organizzazione, dove la comprensione finale di un fenomeno e di una realtà passa sempre per l’aiuto offerto alle diverse comunità con cui si viene a collaborare, e a sua volta il sostegno è figlio di un’attenta osservazione e analisi delle dinamiche attive sul territorio.
Tentare di capire la Siria reduce da sette anni di feroce conflitto era per me poi diventata una premura costante e non più archiviabile, un impulso non solo alimentato dall’interesse profondo nei confronti della storia contemporanea del Medio Oriente, ma reso ancora più urgente dal percorso accademico di relazioni internazionali intrapreso negli ultimi anni. Strada questa che mi ha permesso di familiarizzare con le dinamiche che muovono i sottili equilibri della regione con una preparazione utile nel momento in cui si è inverata la possibilità, fino a quel momento niente più che agognata, di raggiungere il Paese e diventare volontario.
SOS Cristiani d’Oriente per me è infatti anche questo: un viatico privilegiato che permette di coniugare la vocazione del volontariato con la passione per la storia e la geopolitica concedendo infine di coltivare un’eventuale spirito d’avventura. Il tutto al netto di un patentino di credibilità di prim’ordine che ha permesso in pochi anni ad un’organizzazione assolutamente giovane di radicarsi non solo in Siria ma in lungo e in largo nella regione (da ricordare le missioni permanenti attive in Egitto, Libano, Giordania, Iraq), con ilbeneplacito delle comunità cristiane e di altre confessioni, riuscendo a far partire centinaia di volontari. É bene ricordare come SOS Cristiani d’Oriente infatti, che vive e regge le sue attività su donazioni, permette di aderire ai progetti di volontariato a titolo gratuito. Opera inoltre in modo apolitico sulla scorta del bisogno che registra in diverse zone della regione.
Chi è consapevole e critico del campo umanitario e ancor più rigetta la compromissione politica, non può restare indifferente al percorso autonomo abbracciato dall’organizzazione per svilupparsi e diffondersi in tutto il Medio Oriente.
Sotto queste premesse è maturata la decisione di partire e nel giro di pochi mesi mi sono trovato catapultato nel fascino esotico di una dei luoghi più densi e ricchi di storia del mondo intero, a stretto contatto con un popolo che ha saputo nel giro di poco tempo conquistarmi irrimediabilmente.
La missione mi ha visto percorrere in lungo e in largo la Siria, visitando città e villaggi di cui avevo solo sognato l’esistenza, e che avevo imparato ad individuare sulla mappa a seguito delle notizie drammatiche che ci pervenivano in Europa. Dal traffico caotico e l’opulenza tipici di una capitale come Damasco, che la guerra ha toccato solo marginalmente, alla desolazione dei molti quartieri centrali ridotti in macerie di un’altra metropoli qual è Homs, tristemente assurta alle cronache per essere stata teatro di alcuni fra gli scontri più cruenti antecedenti alla sua liberazione. Passando per le cornici pittoresche e scenografiche di piccoli villaggi cristiani ormai divenuti simbolo emblematico della resistenza contro il fondamentalismo di matrice salafita e wahabita.
È il caso di Maaloula, da sempre meta irresistibile per il turismo nel Levante, pittoresco centro abitato dalla tradizione millenaria arroccato sui monti al confine con il Libano, dove la barbarie della guerra e i crimini dei jihadisti targati Al Nusra (la costola siriana di Al- Qaeda) non sono riusciti nel disegno di damnatio memoriae volto ad annichilire e sopprimere una volta per tutte la presenza cristiana nell’area. Qui una missione dell’organizzazione è presente in pianta stabile da anni, avendo sviluppato un legame sincero e indissolubile con la popolazione locale che si giova dell’aiuto dei volontari per mansioni e attività di vario genere.
È poi il caso di Mhardeh, villaggio cristiano del Governatorato di Hama di cui conservo memoria con un certo affetto. Ricercando su internet il nome di questa cittadina è possibile infatti imbattersi in una documentata collezione di contributi che mostrano crimini di guerra, esecuzioni e azioni brutali contro la popolazione locale, bersagliata per anni e anni da coloro che i media occidentali hanno strumentalmente etichettato come “ribelli moderati”. Abitanti messi alle corde a tal punto da aver deciso di riunirsi in una milizia di mobilitazione popolare a guida cristiana (parte delle Forze di Difesa Nazionale), incaricata ancora oggi della salvaguardia e della sopravvivenza dell’intero villaggio. Ricordo in particolare con un certo disagio quanto sia stato difficile, durante la breve permanenza in zona, passeggiare nei sobborghi della cittadina e incontrare lo sguardo della gente da cittadino di uno dei Paesi che avevano supportato la causa di quei sedicenti ribelli. Non ho infatti memoria di altra circostanza in cui mi sia risultato così gravoso l’essere europeo. Un fardello che riusciva ad alimentare un autentico senso di colpa, reso ancor più intollerabile dal fatto che i governi del vecchio continente non solo avevano indugiato sulla condanna del terrorismo in Siria, ma in diversi casi avevano avallato e sponsorizzato una tale ideologia radicale. Postura politica rea del resto di aver alimentato la spirale di violenza che tanta sofferenza aveva causato agli abitanti in cui mi stavo imbattendo, che con mia sorpresa mi ricambiavano con un atteggiamento conciliante e sinceramente ospitale.
Menzione doverosa va poi concessa ai villaggi di Qarah e Sadat. Il primo, piccolo agglomerato urbano sulla dorsale del Qalamoun in direzione di Homs, che può vantare il poco fortunoso primato di essere stato occupato in circostanze diverse sia dai jihadisti di Al-Nusra che da quelli dello Stato Islamico, luogo dal richiamo biblico dove un’incontro fortuito con un cappellano ortodosso dai modi eccentrici ha saputo risvegliare in me una sensibilità religiosa del tutto inattesa.
Il secondo, insediamento cristiano nel bel mezzo di piane aride e desolate ed ex sede di una missione di SOS Cristiani d’Oriente, è stato nientemeno che il punto di partenza per un viaggio a sorpresa pianificato dall’organizzazione nella cosiddetta “Perla del Deserto”, in arabo conosciuta anche come Tadmur, la millenaria e suggestiva Palmyra. A poco serve descrivere l’emozione dei volontari al cospetto dell’ultimo checkpoint all’esterno della città, dopo ore di guida attraverso brulle ed urlanti distese desertiche qua e là cosparse di rottami e scheletri di veicoli bruciati, quasi depositati a monito di nuovi sussulti jihadisti dello Stato Islamico, che su di quelle lande aveva imperversato per anni.
Ricordo ancora la sensazione nell’attraversare la metropoli pressoché svuotata dei suoi abitanti e del suo spirito, immergendosi in un dedalo di vie che nonostante la rovina portata dallo Stato Islamico riuscivano ancora ad emanare quel calore mite tipico delle città di deserto.
Un connubio di sentimenti su cui riusciva a prevalere l’inquietudine seguita alla visita del museo nazionale di Palmyra, luogo dall’atmosfera quasi sacrale dove la furia iconoclasta e impudente del Califfato era piombata senza distinzione tanto sulle opere millenarie conservate all’interno quanto sulla sorte del celebre custode, accolto nell’olimpo della storia per aver stoicamente posto la salvezza dell’arte prima della sua stessa vita. Inquietudine che lasciava infine il passo alla devozione silenziosa nel visitare il sito archeologico violentato e depredato di molte parti ma sempre orgoglioso della sua grazia senza tempo. É su queste terre che l’umanità ha visto l’inizio della sua storia plasmarsi, e su queste rovine che ha intravisto la sua fine delinearsi. Inerpicandomi tra i gradoni dell’anfiteatro più famoso del Medio Oriente non potevo che rievocare quelle immagini sprezzanti, circolate in ogni angolo del globo qualche anno or sono, dei giustiziati fatti inginocchiare sulle stesse pietre che in quel momento calpestavo, mentre mi chiedevo con ingenuità se fossero mai emerse le responsabilità ingombranti di chi aveva favorito l’avanzata di Daesh.
Non posso che concludere questa rapida cronaca con un pensiero nostalgico a quella che con un po’ di licenza egoistica mi piace definire la “mia Aleppo”, vuoi perché è stato il sito dove ho trascorso il periodo più consistente della mia permanenza in Siria, vuoi perché città che ha saputo esercitare su di me un’attrazione quasi magnetica, vuoi infine perché luogo dove ho intrecciato amicizie tra le più intime e autentiche lasciando volti e sorrisi di cui conserverò memoria per sempre.
Su questa metropoli straordinaria, che si contende con Damasco il fiero primato di centro abitato (senza interruzione) più antico del mondo, la desolazione e l’orrore della guerra si sono abbattuti con ferocia inaudita impartendole ferite fisiche, psicologiche e spirituali da cicatrizzare in un tempo tristemente indefinito, privandola di qualsiasi certezza e punto di riferimento ma restituendole in cambio una dignità unica. La stesa dignità del resto riconoscibile nei modi e nel carattere della sua popolazione, che per volontà o perché costretta dalle circostanze ha preso la decisione coraggiosa di restare e lottare per il futuro suo e della Siria intera. Perché se tanti sono partiti, i più sono in realtà rimasti: comprendere la Siria di oggi significa ragionare sulla sorte e indagare le ragioni dei secondi, fermo restando che quello sul ritorno della diaspora dei profughi resta argomento di strettissima attualità e urgenza.
In tempi in cui il tema dell’umanità riesce infatti a guadagnarsi uno spazio sempre più determinante nelle prime pagine di molte testate è utile riflettere sul suo senso applicato al vissuto e alle storie di altri protagonisti, coloro che alla via della migrazione necessaria,disperata ma dalla patina spesso illusoria, hanno favorito la via altrettanto precaria di casa, vedendosi così ingiustamente negata un’adeguata risonanza mediatica e, appunto, umanitaria. É ad esempio il destino trascurato dei molti cristiani e in generale degli abitanti di Aleppo, incontrati durante le visite domestiche per la distribuzione di beni di prima necessità alle famiglie bisognose, nella casa di riposo per malati e anziani non auto-autosufficienti gestita dalle Suore di Calcutta, durante le giornate di lavoro presso una delle fabbrica di sapone più antiche della città e presso cantieri di ricostruzione in cui eravamo impegnati noi volontari, o ancora durante le messe, le attività di assistenza a bambini orfani e con sindrome di Down, le lezioni d’insegnamento del Francese o dell’Italiano condotte nelle parrocchie, le visite alla città vecchia con le sue bellezze recondite e gli incontri nei locali frequentatissimi dove di fronte ad una partita di calcio europeo si accendevano fecondi dibattiti sul futuro della Siria e sul suo recente passato.
A tutti loro mi sento di dedicare questo resoconto, chiunque determinante a modo suo nel trasformare la mia missione di volontario in un esperienza dai tratti esclusivi ed indimenticabili nel giro di un saluto, uno scambio di parole in arabo o inglese, una stretta di mano, un falafel e sigaretta consumati su un tetto di un cantiere, un shei condiviso fra le rovine di una chiesa o semplicemente un sorriso, gesto rivoluzionario di pacificazione di massa.
Se la rotta Europa-Siria, battuta in questi anni da troppi giovani della mia età pronti a morire ed uccidere in nome dell’imbroglio del martirio religioso, sta tornando ad essere percorsa dalla speranza, riconoscimento considerevole non può che essere attribuito a Sos Cristiani d’Oriente. In tempi di gelo politico-diplomatico chi ha infatti il merito di aver conservato un legame flebile ma costante tra i due mondi, garantendo al Levante un afflusso di giovani che preferisco sfoderare un sorriso piuttosto che imbracciare un kalashnikov, dovrebbe quantomeno ricevere l’attenzione che gli spetta.
Un abbraccio in particolare al fotografo e grande amico Antoine Makdis, a tutti i volontari siriani dell’ufficio della missione di Aleppo, Christ e Aboud, Roula che ho rivisto in Rai allo zecchino d’oro un mese dopo averle insegnato le prime lezioni d’Italiano, il Signor Zanabili della fabbrica di sapone, Ramesh e Lawandos, Giorgio e Nicola, Alexander capo missione generale per la Siria e tutta la comunità di volontari francesi da Damasco a Maaloula, da Homs ad Aleppo.
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