Lasciata Beirut alle spalle, le luci che illuminavano la notte divenivano più rade e sfocate. Nella strada per Damasco poche macchine, qualche cartellone pubblicitario e, per compagnia, musica araba scelta dal tassista. Negli occhi e nella pelle le immagini e le sensazioni di quanto avevo solo sognato: andare in Siria, fare qualcosa per la Siria!
Nella mia testa si ripeteva come una preghiera: “Khalbi ma’a Souria” (“La Siria nel mio cuore”). E proprio mentre la tensione positiva cresceva un cartello blu e una scritta bianca “Welcome to Syria”. Il sorriso dell’autista mi aveva rincuorato.
Prima di partire qualche amico, con il giusto sarcasmo, mi chiadeva: “Tu sei ateo e te ne vai in Siria ad aiutare i cristiani?”. Effettivamente per alcuni era veramente strano, ma non per me: “mica solo i cristiani… lo faccio per la Siria”. Io credo nella “giustizia terrena”, credo che il paradiso dovremmo costruircelo qua, a partire dalla pace, e poi ciascuno professi la fede che vuole. E aiutare i cristiani in Siria, vittime di una orrenda persecuzione, rientrava in questa idea di giustizia, che altro non è che tendere la mano a chi soffre. A salvare le loro vite ci hanno pensato i soldati, cristiani, musulmani e atei, noi, invece, eravamo chiamati a donare un sorriso e una speranza a quelle anime rabbuiate dal conflitto.
Era importante andare prima di Natale, far festa insieme. E i primi che ho incontrato son stati proprio i bambini “dimenticati da Dio”, quelli dell’orfanotrofio di Damasco e i piccoli malati oncologici ricoverati all’Ospedale militare. Lì, per un attimo, il tempo si è fermato e ho capito quanto sarebbe stata dura. Un abbraccio, un pizzicotto sulla guancia, un bacio e un piccolo dono, era quasi tutto per loro. Era Natale.
E mentre in Italia i telegiornali, nel descrivere quei giorni di festa in Siria, raccontavano di chiese vuote, con i miei occhi vedevo la verità: le chiese erano stracolme, nelle grandi città come nei piccoli villaggi. Giunti a Khabab, nel sud della Siria, la notte della vigilia donne, uomini e bambini con l’abito più bello, si incastravano ordinatamente tra i banchi della chiesa. Il silenzio, il rito. Le lacrime di alcuni, come uno sfogo, di chi, forse, aveva perso qualcuno o di chi, forse, con sollievo poteva pregare senza tremare, senza temere di morire sotto il fuoco dei terroristi, che per anni avevano assediato il villaggio. L’esercito aveva liberato il sud della Siria solo a luglio. A me, intanto, rincuorava il fatto di non averli creduti mai quei telegiornali.
Intanto i cristiani di Khabab, che per qualche giorno ci avevano ospitato tenendoci sul palmo delle loro mani, mi ricordavano i sardi, ed io mi sentivo già a casa. Del resto, per cinque mesi, anche per via dell’aspetto estetico, ogni nuovo incontro era succeduto da alcuni secondi di stupore nel capire che non ero siriano. Mi chiedevano di dove fossi: “Ana min Italia, jazeera Sardinia!” rispondevo. Un po’ di meraviglia e: “che bella l’Italia, vorrei andarci un giorno…”. Ci adorano. E forse la consapevolezza che il nostro Paese non abbia sparato un solo proiettile contro la Siria rende tutto ciò normale.
Destinazione Aleppo.
Se all’eco dei bombardamenti notturni ti abitui infretta è più difficile, invece, non pensare costantemente alle parole e alle lacrime della donna anziana, sola, a cui hai portato alcuni beni di prima necessità. Ti può dire che i figli sono morti in un qualche modo, che tutta la famiglia è partita via, lontano. Ma lei no, lei è rimasta e non lascerà mai Aleppo, neanche sotto le bombe, neanche patendo il freddo o la fame, neanche con un biglietto pronto per il Canada o l’Europa. Neanche se sola; lei morirà ad Aleppo. Quella donna è la madre di Aleppo. E quante ne ho incontrato e quanta sofferenza nei loro racconti. Ma quanta forza!
Il lunedì mattina era dedicato a dare una mano alle suore di Madre Teresa di Calcutta. Il loro centro, con oltre 50 indigenti, non ha mai chiuso. Circondato dai terroristi ed anche bombardato ha sempre accolto gli ultimi. Invece, il martedi nella scuola di San Giorgio coi bambini down c’era da divertirsi. Ma nel quartiere di Midan, il mercoledì, ripiombavi nella realtà del conflitto, in mezzo alla distruzione, a spalare macerie negli appartamenti. Queste le brevi impressioni di una mattina di gennaio, entrando in una casa di una famiglia cristiana di origini armene che aveva lasciato la città: “Facciamo due rampe di scale ricoperte dalle macerie. Entriamo: il freddo, il silenzio, il fango, il casino. Un grosso foro sul tetto, porte e finestre inesistenti. Sul terrazzo il responsabile materiale della distruzione giace oramai arruginito. Per terra vestiti, valigie e scarpe ricoperti di polvere. Le foto nel corridoio, sporche e sparse; ce n’è una di un matrimonio e di un battesimo. Forse sono usciti di corsa – ho pensato – portandosi dietro le cose più utili”.
‘’Aiutare i cristiani in Siria, vittime di una orrenda persecuzione, rientrava in questa idea di giustizia, che altro non è che tendere la mano a chi soffre. ’’
Come era solito raccontarmi quel magnifico libro aperto che tutti i volontari incontrano ad Aleppo, ossia il professor Alexandre Ivleff: per un lungo periodo della sua storia la lingua straniera più in uso in città era l’italiano, grazie ai forti legami commerciali e culturali della Repubblica di Venezia con la Perla del Levante. Negli ultimi decenni invece, il francese e l’inglese l’hanno fatta da padrona. Eppure, in questa breve ma intensa esperienza tante persone hanno manifestato l’interesse per la nostra lingua. Così, con i pochi mezzi a disposizione abbiamo messo sù dei corsi per principianti, sette in tutto, per un totale di sessanta studenti. Per me è stata la parte più bella del “percorso siriano”, poiché mi ha dato modo di conoscere tante persone, tanti amici, di poter parlare con loro e capire meglio alcune cose, sulla guerra, sulle loro sensazioni e opinioni. Più che un percorso formativo, lo scopo delle lezioni di italiano era distrarre dalle difficoltà quotidiane e dai cattivi ricordi, divertendosi e imparando. Porterò ciascuno studente nel cuore, persone semplici e generose. E terrò la promessa di tornare presto a trovarli.
Del resto, lasciare Aleppo, gli aleppini e la Siria non è stato facile. C’è ancora tanto lavoro da fare e ciascuno di noi può fare la sua piccola parte: con un aiuto concreto, partendo come volontario o, semplicemente, divulgando la verità sul conflitto siriano, rendendo giustizia e onore ai tanti che per salvare la Siria laica hanno donato la propria vita.
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