di Maria Caterina Foppiani
Al Cairo l’atmosfera è immersa nella nebbia del narghilè che mischiandosi alla luce del sole accompagna verso un mondo onirico che si discosta nettamente da quello occidentale. Le mani degli anziani seduti nei bar di strada, con l’anello e perché no, una sigaretta fumante, rapiscono lo sguardo. Le preghiere del Muezzin fanno da sottofondo a molte attività e sebbene a volte si impongano quasi con violenza e prepotenza al silenzio, mi fanno riflettere sulla povertà spirituale occidentale, e il loro continuo richiamo a qualcosa che va al di là di tutto ciò che è prettamente immanente, mi affascina. D’altronde come dice Ratzinger “Non si sfugge al dilemma dell’essere uomini. Chi pretende di sfuggire l’incertezza della fede dovrà fare i conti con l’incertezza dell’incredulità”.
Il sentimento dominante è la gratitudine che riaffiora nei giorni che seguono il rientro dalla missione. Custodisco la bellezza di alcuni anziani vestiti di tuniche che li ricopre di un’aura tutta particolare, con anelli dalle pietre e incisioni misteriose. Alcuni nella loro innata eleganza, rivelano una povertà che non sfocia in sciatteria. Gratitudine per l’attrattiva della testimonianza di chi si è saputo fare ultimo con gli ultimi, in una sana e feconda dimenticanza di sé. Come la ragazza che inizialmente si è presa a cuore la “Maison de l’esperance” passando tre anni dopo la sua laurea dedicandosi totalmente alle ragazze disabili e vivendo con loro. Ora sposata, è la madre, dottor Jahnette che porta avanti la casa. Una donna che ci ha conquistate, così elegante nei movimenti, così posata nel parlare eppure così ferma e risoluta nel mandare avanti una casa non priva di numerosi ostacoli psicologici e economici, garantendo a quelle donne una famiglia. Le sue mani affusolate e curate che chiudono elegantemente le marmellate, o i contenitori dove ci aveva preparato altre prelibatezze come datteri caldi in succo di agrumi e spezie, sono un dolce ricordo di quella casa accogliente.
Le ragazze disabili nella casa mi hanno insegnato molto nel loro prendersi cura vicendevole con pazienza, cercando di completare l’una le difficoltà dell’altra, con una semplicità che a tratti si poteva confondere con una ingenuità fanciullesca, ma spesso si rivelava saggezza e consapevole maturità. Il tempo trascorso con loro, trasforma, in silenzio. Abbiamo passato molti pomeriggi con le Suore di Calcutta, erano così luminose ricche di niente. Accolgono e riscaldano nella loro piccola oasi che contrasta col degrado fuori dalle loro mura. Fanno tutto per amore, nessun atteggiamento da paladine della giustizia. Una sera dopo aver dato la buonanotte alle donne da loro accolte, la superiore mi porta nella cappella. Era senza sedie, perché così madre Teresa aveva iniziato. La culla per Gesù bambino del presepe veniva realizzata giorno per giorno dalle suore, per ogni sacrificio che facevano per amore di quel bambino mettevano un filo di fieno. La cappellina era il loro rifugio sobrio e accogliente là dove le persone picchiavano ai cancelli per avere un aiuto, talvolta in impeti violenti. Il loro è un amore, un semplice e sicuro abbandono che ti prende quasi per mano per portarti verso Dio con l’esperienza sempre così viva nel servizio quotidiano agli ultimi: “se vuoi servire i poveri devi vivere come i poveri”. Testimoniavano con totale naturalezza che “La chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione”, frase che ho trovato in un libro sui martiri di Algeria donatomi proprio da una suora italiana dell’ordine. L’ultimo giorno una suora ci ringrazia, e ci dice che ciò di cui hanno bisogno è una presenza. Oggi tutti corrono ma le persone hanno sete di presenza e di qualcuno che gliela mostri. Quando non si parla la stessa lingua e non si ha la stessa cultura alle spalle non c’è alcun automatismo negli incontri, tutto va conquistato, a partire da un sorriso.
Un giorno siamo andati nell’antichissimo monastero di sant’Antonio, l’architettura ricordava i libri illustrati sull’infanzia di Gesù e questo legame, queste origini in comune facevano sentire a casa. L’abuna ci ha portato in una grotta e ha cominciato a cantare in arabo una dolcissima preghiera alla Madonna. Ha chiesto anche a noi di cantare: colleziona canti da tutte le parti del mondo, ne aveva solo altri tre. Questo sollevare e portare a Dio col canto è stato da brividi e ho visto il monaco quasi commuoversi. Sembrava sinceramente contento di averci lì e continuava a ringraziare, per un gruppo di ragazzi occidentali che erano lì a donare un po’ di tempo in Egitto e a cantare allo stesso Dio legati dalla stessa fede che riempie le distanze, col valore aggiunto che aveva quel cantare insieme dopo gli isolamenti a cui erano stati sottoposti in seguito alle minacce terroristiche. Con gli altri volontari siamo saliti fino alla grotta dove si ritirava sant’Antonio. Tutto il percorso era disseminato dai rifiuti. Principalmente le bottiglie di acqua che i pellegrini usano per affrontare il caldo nella salita. I ragazzi volontari si sono messi a raccoglierle e porle nei cestini, nel silenzio del deserto. Uno dopo l’altro si sono uniti in quel gesto, quasi avessero fatte proprie le parole del monaco. Poco prima ci aveva illustrato l’antica tradizione iconografica dei monaci per cui erano rappresentati con occhi grandi per osservare e la bocca piccola per non parlare a sproposito, in un atteggiamento di ascolto e servizio. Ad Alessandria i treni sono come vecchie fotografie ingiallite e macchiate di caffè. Mi sono lasciata affascinare dai vicoli colorati, dal volteggiare dei panni che si intrecciano, da queste immagini che si compongono e scompongono come in un caleidoscopio. Quasi che i colori delle spezie, dei tessuti debbano compensare il grigio dei palazzi mai finiti, del deserto tutto intorno, delle bidonville stracolme di spazzatura e pervase dal fumo nero. Un uomo con un carro pieno di verdure e un cavallo a trainare, passa per le strade strette e malandate quanto maleodoranti. Una signora dal secondo piano fa scendere un cestino coperto di velluto rosso e fa così la spesa. Nelle bidonville c’è chi tiene alla sua dignità e spende il poco che ha anche per prendersi cura della casa, per fare delle decorazioni sui muri. Preghiamo insieme alle famiglie che visitiamo. Preghiamo in arabo, in francese e in italiano, ognuno sorride nel sentire l’altro pregare in un’altra lingua e anche se non capiamo ci sentiamo legati.
Ad Alessandria si respira la gloria di un passato che è stato consumato dalla storia, dai conflitti e dalla povertà. Esempi eclatanti ne erano La cattedrale di santa Caterina, i bellissimi ambienti della parrocchia dei maroniti che lasciano trasparire i fasti di un tempo passato che cerca di tornare vivo. Nella parrocchia dei maroniti, un seminarista ci raccontava che un tempo si celebravano 3 battesimi a settimana, il prete attuale presente da 2 anni e mezzo non ha ancora celebrato un battesimo. Di fronte ai sentimenti di malinconia che possono suscitare certi racconti, l’inadeguatezza e la povertà del mio essere si palesano nell’urgenza di mantenere una coerenza a distanza, non offrendo solo una presenza fine a sé stessa e momentanea. Tutto comporta una messa in discussione, specie quei “poveri in spirito” che rivelano la loro ricchezza. Di fronte alla mia incapacità di farmi davvero come loro, povera, in una dimenticanza totale di me, mi fermo davanti al presepe con gli altri volontari. Forse uno dei ricordi più belli è davvero quello di un volontario, la sera tardi, nell’abbraccio del buio col rosario in mano, in ginocchio a pregare davanti alla Madonna. “L’onnipotenza di Dio non si rivela che nella debolezza dell’uomo che prega.” (cit. Divo Barsotti)
Un grazie speciale ai ragazzi con i quali ho condiviso l’esperienza, per l’umiltà e la naturalezza con cui si mettevano a servizio, in un abbandono e affidamento quotidiano nella preghiera che poi, coerentemente si trasformava nella presenza gioiosa nelle attività, con l’attenzione ad ascoltare e cercare di capire un mondo lontano. Grazie, per avermi fatto divertire e commuovere in un gioco di emozioni che mi riempiono ancora di gratitudine
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