La paura non era legata ai possibili rischi quanto alla consapevolezza che una volta tornato non sarei più stato la stessa persona.
Mi presento: mi chiamo Alessandro, ho 24 anni e vengo da Roma. Dopo la laurea, diverse esperienze come volontario per le Nazioni Unite e un’esperienza lavorativa come operation manager per un acceleratore di start-up, ho deciso di partire con SOS Cristiani d’Oriente.
Nei mesi di preparazione il mantra era stato: “Un Paese in guerra non può essere peggiore del mio capo”. Eppure, ero nervoso. Saranno state le reazioni degli amici: mi guardavano come se davanti a loro ci fosse già un fantasma. O quell’ultimo “mi raccomando, fai attenzione!” di mia madre, subito prima di chiudere la porta del taxi. Fatto sta che durante il tragitto per l’aeroporto la tensione aumentava dando voce a paranoie e preoccupazioni. Ma nessuna di queste emozioni avrebbe potuto predispormi al mio soggiorno di 4 mesi in Siria.
Sono arrivato a Damasco il 6 marzo, all’alba. Gli altri volontari e i responsabili missione stavano iniziando la loro giornata e mi hanno subito coinvolto. Ma è così per ogni volontario, l’arrivo. Frenetico.
Bisogna imparare tanto e subito: misure di sicurezza, punti di ritrovo, responsabilità nella casa, chi avvertire quando si esce…
Le sessioni formative si alternano con le inevitabili pause caffè, quando ti accorgi che i veterani si riconoscono nel disorientamento e nel nervosismo che galleggia nei tuoi occhi e ti tranquillizzano con un “Ma sì, ci farai l’abitudine!”.
E in effetti si fa presto a prendere il ritmo e a rendere routine tutte le “particolarità” del vivere in Siria.
Trascorso il periodo di ambientamento e formazione, mi è stato assegnato il mio compito di volontario e viste le passate esperienze nel settore degli aiuti umanitari, sono stato nominato responsabile delle donazioni per il villaggio di Khabab. Anche se, all’inizio, non mi è stata chiara fino in fondo l’enormità del mio incarico ovvero portare a compimento il sistema di donazioni di SOS per 40 famiglie bisognose di Khabab.
Sono quindi iniziate le visite alle famiglie per valutarne le necessità cercando di capire come aiutarle al meglio senza creare dipendenza dagli aiuti esterni. Una volta recuperati gli aiuti è arrivata la consegna ai beneficiari. Mi tornano in mente i pomeriggi passati a camminare sotto il sole con la tachicardia, per via dei tanti caffè offerti. Mi torna in mente la sensazione di aver percepito la povertà di una famiglia che non potendo offrirti altro ti versa dell’acqua. Mi torna in mente il sollievo dipinto su ciascuno di quei volti quando, poco meno di un mese dopo il primo incontro, siamo tornati con le donazioni. Ricordo tutti i loro nomi e la dignità nel chiedere quell’aiuto.
Ora che è passato del tempo e che la mia esperienza è terminata, riesco a dare un spiegazione diversa a quel nervosismo iniziale che quasi mi chiudeva lo stomaco.
‘’La paura non era legata ai possibili rischi quanto alla consapevolezza che una volta tornato non sarei più stato la stessa persona’’.
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