“Nel mese di volontariato ho avuto modo di comprendere della grande dignità dell’uomo che, seppur umiliata da infamie, si rigenera come un albero passato l’inverno, trova il coraggio di risorgere, come Cristo testimonia”.
Ad Amman, la vicinanza ai rifugiati iracheni che il volontariato mi ha dato il privilegio di vivere ha segnato indelebilmente le mie considerazioni sulla nostra quotidianità immune da sconvolgimenti. La cristianità (e la tradizione spirituale tutta) che qui veglia da tempo immemore, subisce il torto di chi difronte all’aridità del proprio animo impone su di sé e agli altri le mani rudi della barbarie. Ho toccato con mano la sofferenza di chi si è visto negare il proprio decoro di essere umano, umiliato dalla violenza di infami rivendicazioni. Essere costretto a fuggire dal proprio paese è come l’albero costretto dall’inverno ad abbandonare le proprie foglie per sopravvivere, dunque perdere la propria bellezza, il sentimento che riveste l’animo di ognuno, e dimenticare il rigoglio di passate stagioni ormai soffocato dalla crudeltà.
La vita di ciascuno si ritrae lentamente in uno spazio minimo e intimo. Sebbene considero un atto di superiorità morale ed intellettuale la strenua volontà di difendere il proprio diritto a non emigrare, la scelta di abbandonare la propria casa è altrettanto una missione decorosa che noi non possiamo che sostenere con rispetto. A questo proposito ricordo le parole di Faris. La sua è una testimonianza che non lascia spazio a precisare chi siano le vittime e quali i carnefici, ma procede nel delineare vividamente i colori di un passato di cui sono orfani e di un futuro che ignora lo strazio che ne deriva.
“In mezzo a loro ho riscoperto l’inestimabile valore della famiglia, del fare comunità e del sentirsene parte integrante”.
È per questo profondo abbandono subito che egli ha deciso di lasciar il suo paese, e per impedire all’oblio di non risparmiare neppure sua figlia, di appena 6 anni. Nel mese di volontariato ho avuto modo di comprendere della grande dignità dell’uomo che, seppur umiliata da infamie, si rigenera come un albero passato l’inverno, trova il coraggio di risorgere, come Cristo testimonia. In mezzo a loro ho riscoperto l’inestimabile valore della famiglia, del fare comunità e del sentirsene parte integrante, di condividere il quotidiano lontano dell’isolamento in cui inducono le paure.
La consapevolezza di avere una famiglia e un riparo rischiara quanto dell’orizzonte pene ed umiliazione hanno abbuiato. La benevolenza che ho visto animare queste famiglie è ispirata dalla fede, la fede nell’amore che Gesù insegna. Custodisco un tenero ricordo di ognuna delle tante persone conosciute, la loro splendida cordialità, il loro generoso affaccendarsi nel fare sentire gli ospiti a loro agio, i regali, le care parole di augurio e di ringraziamento. Mi torna in mente il viso di Isaak, giovane custode di una chiesa che le fatiche hanno incanutito.
Fuggito dall’Egitto, inseguito a minacce per la propria appartenenza religiosa, egli ha trovato rifugio e lavoro presso la parrocchia di Mafraq, nel nord della Giordania. La sua squisita gentilezza e giocosa simpatia mostrate durante appena 3 giorni, culminarono alla mia partenza con un tenero “satuhishuni”, parola araba che allude ha un profondo senso di mestizia derivante dalla lontananza di chi ci è caro. È un’immagine che preservo con cura tra i più bei momenti vissuti. Quello che mi auguro è che un giorni questi figli guarderanno al loro passato non occhi mortificati, ma con animo libero da paure e offese e magari far ritorno a casa. A noi non resta che continuare a sostenerli con tutta la nostra intelligenza. A l’uomo, per riaffiorare dalle acque sporche dell’insofferenza, non resta che riscoprire l’intima unione della fratellanza, che in molti e per molto tempo sembra essersi assopita.
Livio D’Alessio
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