“Paesini cristiani e musulmani si alternano sulle alture della regione e il canto del muezzin si mescola al suono delle campane”.
Sono andato in Libano per fare un’esperienza concreta, per toccare con mano la realtà dei cristiani d’Oriente e per conoscere un Paese le cui dinamiche influenzano l’intera regione. Appena arrivato a Beirut, sono accolto calorosamente dai volontari francesi presenti sul posto. La base di Beirut funziona da centro di smistamento e di direzione delle attività in Libano. Dopo due giorni di attesa, sono assegnato alla missione di Tripoli. Francois-Marie, il capo-missione del Libano, mi accompagna con l’automobile dai miei compagni e in giornata ci rechiamo nell’Akkar, la regione più povera del Paese. Partecipiamo alla Messa nel villaggio di Ilat e poi andiamo a Kraibe, un paese vicino. Lì montiamo un canestro da basket per i ragazzi del luogo e partecipiamo a pranzo e cena insieme a tutto il villaggio. È un primo contatto speciale con la cultura del luogo. Le donne di Kraibe preparano per noi delle manushé con formaggio e zatar, cuocendole sotto i nostri occhi, come fossimo in un paesino del Sud Italia.
La settimana successiva siamo per una colonia estiva a Hardine, un villaggio sulle montagne a sud di Tripoli. È un tranquillo paese maronita, con le sue ville sparse sulle alture. Qui si beve caffè al cardamomo, tipico anche di Siria e Iraq. Il clima è più fresco rispetto alla costa, finalmente si respira liberamente. I bambini di Hardine hanno la gioia dentro. Basta un pallone per scatenarli: lo rincorrono, saltano, gridano. Impersonano i grandi calciatori dei campionati europei, divinità di un altro pianeta. Poi mi saltano sulle spalle, si avvinghiano al collo e mi spronano al galoppo. Coloriamo delle maschere insieme, le ritagliamo e le indossiamo ridendo. Facciamo giochi di gruppo in un campo polveroso circondato da arbusti, mentre il sole bacia i nostri volti. “Shues mik?”, chiedo a una bambina che mi sorride graziosa. “Seléne!”. Paul, Peter, Ryan, Edwin e tutti gli altri mi ricordano che per essere in allegria basta poco, ed è bello tornare bambini e stancarsi. Una stanchezza felice e spensierata.
“Le donne di Kraibe preparano per noi delle manushé con formaggio e zatar, cuocendole sotto i nostri occhi, come fossimo in un paesino del Sud Italia”.
Poi dopo una settimana ci spostiamo di nuovo nell’Akkar, dove in tre villaggi l’associazione organizza campi estivi per i bambini. Paesini cristiani e musulmani si alternano sulle alture della regione e il canto del muezzin si mescola al suono delle campane. Anziani con il capo cinto da una kefiah passano accanto alla chiesa, accompagnati da un mulo che porta fieno o cavi elettrici. Ci salutano con uno sguardo, e nei loro occhi si legge una vita intera di fatica e lavoro. Il nostro alloggio è nell’oratorio della chiesa del villaggio, uno stanzone con materassi e cuscini ammassati a terra, dove riposare per qualche ora. Alle 8 del mattino già si sente il rimbalzare del pallone, che scatena le grida dei bambini nella via. Quando arriva l’Abuna (il sacerdote), i bambini si siedono a terra intorno a lui e ascoltano i suoi racconti in arabo. È affascinante ascoltare una lingua che non si conosce, si gusta la sua musicalità, le sue pause, il suo alzarsi e abbassarsi come un’ascia che taglia la realtà. L’arabo è come una donna dallo sguardo sfuggente, con lunghi capelli bruni e occhi neri, le cui carezze ti graffiano il volto. L’Abuna dosa con sapienza ogni frase, chiama a sé i ragazzi, incantati dal suo parlare. Dà il via alla preghiera e tutti si alzano, cristiani e musulmani. Dopo la lode ad Allah, si canta in suo onore e si battono le mani a ritmo, tutti insieme. Quando arriva il momento della dabke, la danza tradizionale libanese, Serge ci insegna a ballare. All’inizio siamo un po’ impacciati, ma poi ci facciamo prendere dalla musica e non ci fermiamo più.
La terza settimana vengo mandato insieme ad altri volontari nello Shuf, la terra dove convivono cristiani e drusi. Qui passiamo la mattinata con i bambini e il pomeriggio visitiamo i dintorni del villaggio. La quarta settimana sono di nuovo nel nord, a Mejdlaya, vicino a Tripoli. Trascorro gli ultimi giorni a Rmeich, villaggio cristiano a pochi chilometri dalla frontiera con Israele. Un punto infuocato. Su una collina del paese sorge una scritta in stile hollywoodiano, surreale. Per le strade siamo salutati dai locali con grande cordialità, mentre veicoli delle Nazioni Unite sfrecciano accanto a noi. Insieme ai soldati della missione del Ghana puliamo le vie del villaggio dall’immondizia. Questi militari cercano di essere vicini alla popolazione dei luoghi dove si trovano. E l’accoglienza dei libanesi fa il resto.
Alessandro Bonetti
Via Meuccio Ruini 31,
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